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Aveva ragione Gian Burrasca?

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Fino ad oggi vi ho parlato della cucina di mia nonna Cesara di Livorno perché attirava molto di più la mia curiosità e mi sembrava più fantasiosa e intrigante, ma anche mia nonna paterna Giulia, moglie di Domenico il tranviere, aveva i suoi lati positivi se si trattava di coniglio con le olive amare, della polenta coi pioppini, del collo ripieno o della torta di neccio (castagnaccio) e di tanti altri piatti della cucina lucchese.
 
Era la seconda moglie di Domenico perché la prima era morta dando alla luce mia zia Marietta e, provenendo da una povera famiglia di contadini, si riteneva fortunata ad essere moglie di un tranviere e per di più avvenente; ero piccolissimo quando le stavo in braccio e lei, col viso piantato verso suo marito che faceva merenda con una coppia d’uova “affrittellate” e una bottiglia di vino, ogni quarto d’ora esclamava sospirando e con gli occhi persi : - O ni’, come sarà bello ‘l tu’ nonno…!
 
Questa sua umile, ma radicata e solida origine di cui è sempre andata ferocemente orgogliosa, l’ha portata a conservare vecchie tradizioni e abitudini per tutta la sua vita, sia nei modi di fare che nel parlare e, ovviamente, in cucina.
Lei ha sempre avuto il caminetto in casa e, fino a che è vissuta, la polenta l’ha cotta nel paiolo; nello stesso caminetto cuoceva patate e salsicce sotto la cenere e tostava personalmente l’orzo dentro una specie di infernale marmitta d’auto, ugualmente rumorosa e nera come la fuliggine.

Di queste vecchie tradizioni e abitudini, gli sciroppi, purtroppo, non ne facevano parte per cui, quando avevo un po’ di tosse, dovevo fare il possibile per non farmi sentire da lei, altrimenti mi avrebbe fatto bere il brodo di “tullore”, che a lei piacevano da morire, perché, per i disturbi di gola e respiratori, era “una mano santa”; questo brodo miracoloso non era altro che acqua (a volte mischiata con un po’ di latte) dove si facevano cuocere per 2/3 ore le castagne secche con qualche foglia di alloro. Forse un paio di tullore, facendo violenza al mio palato e al mio stomaco, avrei potuto anche mangiarle, ma il brodo no. Quello no, davvero! Lo odiavo quanto odiavo l’olio di fegato di merluzzo, però ero costretto a farci i conti come, del resto, dovevo farli anche  con il “pancotto”; altra cosa che lei amava svisceratamente e che mangiandolo le procurava una gioia della quale avrebbe voluto, ogni volta, far partecipe anche me.
Io mi ritenevo già sufficientemente gioioso per cui, cercavo di trovare sempre una scusa plausibile e diversa di volta in volta, che mi permettesse di declinare questi inviti, paurosamente ricorrenti,  senza che ci potesse restare male.
 
In realtà, tanti anni fa, la “pappa col pomodoro” non era un piatto abituale dalle nostre parti e in seguito, quando si è cominciata ad apprezzare di più, è nata un’ambiguità fra questa e il “pancotto” che, ancora oggi, non è stata del tutto chiarita e debellata.   
Molti ritengono infatti che sia lo stesso piatto, ma non è così: gli ingredienti sono gli stessi, è vero, ma Gian Burrasca non avrebbe sicuramente organizzato la ribellione di tutti gli studenti del collegio per il “pancotto”!
Eppure l’ho mangiato più di una volta diversi anni dopo,  a casa di amici che, appunto, non avevano ancora chiarito l’equivoco, non solo per dovere di ospitalità, ma anche perché mi piaceva pensare che fosse una sottile rivincita di nonna Giulia che, in quel momento, mi guardava ridacchiando.
 
Il pancotto alla lucchese, nella versione più ricca, era pane raffermo cotto nel brodo, con l’aggiunta di aglio e un cucchiaio circa a testa di salsa di pomodoro, altrimenti, il pane era cotto addirittura in acqua e aglio con aggiunta,  di un filo d’olio a crudo nel piatto di portata.
Comunque, ogni famiglia ha il “suo” pancotto come la “sua” panzanella e quindi, anche la “sua” pappa col pomodoro.
Quella della mia famiglia è sempre abbastanza semplice, ma forse un po’ meno veloce perché ha una particolarità che non ho riscontrato nelle altre ricette che conosco:  
 
imbiondite due o tre spicchi d’aglio in olio evo con una puntina di peperoncino, aggiungete 500 gr. di pane toscano raffermo che avrete tagliato a piccoli pezzi e fatelo tostare per bene. A questo punto aggiungete 500 gr. di pomodori belli maturi che avrete precedentemente pelati e privati delle semi (potete passarli anche al setaccio) e fate assorbire dal pane tutta la polpa mischiando costantemente; versate del brodo vegetale e “tiratelo su” come un risotto.
Aggiungete il brodo fino alla consistenza desiderata, ma ricordate che il tutto va cotto abbastanza a lungo in quanto la pappa deve risultare omogenea e cremosa e non devono esserci pezzetti di crosta più duri.
Se proprio non riuscite ad ottenere il risultato desiderato, potete aiutarvi con un minipimer, ma senza esagerare. Poco prima di togliere dal fuoco, aggiungete una bella manciata di basilico fresco e, se non avete messo troppo peperoncino, una bella macinata di pepe.
 
La particolarità che vi dicevo sta nel fatto che le altre ricette prevedono di preparare prima una salsa di pomodoro e poi aggiungervi il pane e il brodo; personalmente, mi convince di più l’idea di far tostare il pane nell’olio evo insaporito dall’aglio perché è lui il protagonista principale della nostra ricetta e merita tutta l’attenzione.
La tradizione vuole che il pane sia quello toscano, ma non è indispensabile che sia quello sciocco, basta che sia “casalingo” e che non diventi molliccio e viscido come fa la baguette o il pane bianco in genere: in pratica, serve lo stesso pane che si usa per la panzanella.

Anche per quanto riguarda i pomodori si dovrebbe usare il costoluto fiorentino che è saporito e dolce, ma ritengo che dei buoni canestrini (cuore di bue) o dei veri San Marzano, se riuscite a trovarne, possano andare bene ugualmente. L’importante è che la passata che andrete a versare sul pane sia abbastanza sugosa e ricordatevi, semmai, una presina di zucchero per toglierle un po’ d’acidità. Le quantità del pane e del pomodoro sono indicative, ma è importante che, anche se non alla perfezione, si equivalgano come peso.
Il brodo è previsto vegetale, ma mi è capitato di usare anche quello di carne e se è un buon brodo, il gusto non ci rimette sicuramente, anzi…
Per dare ancora più “forza” al piatto si può aggiungere anche del doppio concentrato, ma lo lascerei per l’inverno quando vi verrà voglia di questo piatto e sarete costretti ad usare i pelati o la polpa pronta.
 
Questo benedetto “pancotto” che però ora non mi sento più di bistrattare perché mi ha suscitato emozioni e ricordi, soprattutto di nonna Giulia che sempre in ombra, sempre accondiscendente e di poche parole, si fece chiamare mamma da mia madre fino dal primo giorno e la amò veramente come una figlia fino a quel tardo pomeriggio, quando disse che le faceva male lo stomaco perché forse non aveva digerito, ma aveva sbagliato organo e se ne andò in silenzio, come era sempre vissuta, poco prima di cena.
Nonna Giulia, sempre vestita di nero, che con una grande tinozza sulla testa andava a stendere le lenzuola sull’argine del fiume e che ogni due o tre ore andava a sentire con le labbra a che punto di asciugatura erano. Nonna Giulia che verso l’una, l’una e trenta, si fermava a casa nostra a prendere il caffè per poi proseguire verso il fiume finché mio padre  le proibì, tassativamente, di andare a “bacia’ ‘ppanni” in quelle ore così calde e assolate, prendendosi cura di controllare, senza farsene accorgere, ma scrupolosamente, che dopo il caffeino e la chiacchierata con mamma, si incamminasse veramente verso casa. Nonna Giulia che lì per lì si imbronciò, ma poi accettò sorridendo l’imposizione di suo figlio e continuò tranquilla a venire a prender il caffè, semplicemente fermandosi al ritorno dal fiume anziché all’andata.

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